venerdì 27 febbraio 2015

Francesco Pinto - LA STRADA DRITTA - Mondadori 2014 - € 18,00





Se una cara amica non mi avesse indotto alla lettura di questo libro, portandomelo recentemente in una occasione conviviale, non ne avrei saputo niente, perché è escluso che, anche incrociandolo sui banconi di una libreria, sarei stato indotto all'acquisto.

Pur essendo vissuto e avendo viaggiato in un'epoca in cui per arrivare in auto da Roma a Firenze bisognava percorre la via Cassia, attraversare Sutri, Viterbo e poi affrontare la tremenda salita tutta curva di Radicofani, dove le possibilità di una Fiat 600 erano messe a dura prova, cosa poteva dirmi di emozionante un libro sull'Autostrada del Sole?

Poi ho cominciato a leggerlo e ho capito perché Francesco Pinto, direttore di Rai Tre dal 1998 al 2002, lo ha scritto e perché l'amica Tiziana me lo ha portato in lettura.

Nel panorama di sfiducia nei confronti dello Stato e della Pubblica Amministrazione, che sembra aleggiare come una condanna sui nostri connazionali, questo romanzo dell'Autostrada del Sole di Francesco Pinto potrebbe agire come un balsamo per restituire speranza e orgoglio a un popolo di depressi. 

Dal 19 maggio del 1956,  giorno in cui su uno sterrato di poche centinaia di metri viene dato inizio ai lavori, senza un progetto definitivo, senza le tecnologie, ne le competenze professionali, ma neanche i soldi necessari, al 4 ottobre del 1964, appena otto anni dopo e in anticipo sui tempi previsti, una striscia di asfalto lunga 755 chilometri collega Milano con Napoli, il Nord con il Sud.

Armati di coraggio e di orgoglio, come se il lavoro benfatto avesse dignità e valore, come i costruttori di cattedrali che siamo stati, in otto anni, pagando un prezzo altissimo in vite umane, un esercito di manovali, carpentieri, tecnici, progettisti combatte senza sosta dall'alto dei viadotti e nel buio delle gallerie, nel fango degli inverni e nell'afa delle estati per rispettare la promessa della sua costruzione, in un percorso impossibile, con soluzioni tecniche ardite e record costruttivi mai eguagliati.

Il gruppo guidato da Fedele Cova, con il transatlantico Cristoforo Colombo, si reca negli Stati Uniti per incontrare chi le autostrade le conosce per averle fabbricate: il maneging director della New Jersey Turnpike, Louis Tonti:

Tonti era quasi costretto ad urlare a causa del rotore, per descrivere agli italiani le caratteristiche della sua autostrada.
«Basta guardarla dall'alto per capire la differenza con una strada normale» spiegava Louis «Un'autostrada non va alla ricerca dei paesi, delle città che deve raggiungere, non si piega alla geografia e nemmeno alla storia. Non farà mai una deviazione per raggiungere un villaggio che poi è diventato un grande insediamento urbano: ha un lavoro da svolgere e lo fa in modo razionale. Corre dritta, il più dritta possibile perché la retta è il sistema più veloce per andare da un posto a un altro»

E quando l'ingegnere Cova rivela all'americano le dimensioni e le caratteristiche dell'autostrada che vogliono costruire:


«Settecentocinquanta chilometri? Mille metri d'altezza?» Tonti era colpito: «Ma che razza di autostrada volete fare? Quali città volete unire?»

Prima di rispondere, Cova, si prese un attimo di tempo, guardò la sua squadra, poi l'americano, e finalmente si decise, scandendo bene le parole.
«Non si tratta di unire delle città, si tratta di unire il Paese.»
L'emozione che il romanzo - almeno a me -  trasmette, è proprio nei fatti concreti che racconta, sull'ostinazione di un gruppo di uomini visionari, decisi ad andare avanti come i bulldozer che aprivano il tracciato, scontrandosi con la cecità di burocrati e funzionari dell'Anas che, ad esempio, non approvavano i progetti perché troppo innovativi, non prevedendo l'autostrada ne parracarri, ne marciapiedi!

Mi ha convinto di meno l'utilizzo di personaggi di fantasia, con le loro storie private, i loro amori, gli smarrimenti dell'anima, che inseriti per arricchire la narrazione, di fatto la sviliscono.

Le foto che documentano la complessità dell'opera, non appartengono al volume, ma le ho trovate su internet.

Per non far confusione: la Salerno-Reggio Calabria di competenza dell'Anas (quelli dei parracarri e dei marciapiedi), è stata costruita come una strada statale e non come un'autostrada, finita nel 1972; è dalla fine degli anni '80 che si sta cercando di ammodernarla, anche per l'obbligo imposto dalla Comunità Europea, il finanziamento fino al 2016 è nella legge di stabilità del 2013.  Campa cavallo....
 







Prova statica sul ponte del Po (progetto Silvano Zorzi) con l'impiego di carri armati Sherman

http://video.sky.it/news/cronaca/lautostrada_del_sole_compie_50_anni/v215779.vid

giovedì 19 febbraio 2015

Fausta Cialente - LE QUATTRO RAGAZZE WIESELBERGER - Mondadori 1976 - £ 4.000


Fausta Cialente (1898-1994) è stata una giornalista, traduttrice e scrittrice che ha anticipato di molti decenni le tematiche legate alla condizione della donna, tanto da essere definita antesignana del femminismo moderno.

Già negli anni trenta le sue opere erano molto apprezzate, le ricordiamo: Marianna (1929), Natalia (1930), Pamela e la bella estate (1935) Cortile a Cleopatra (1936). Durante il periodo bellico, collaborerà alla lotta antinazista da Radio Cairo, con trasmissioni di propaganda antifascista, fondando poi e dirigendo, dal 1943 al 1945, un giornale, "Fronte Unito", destinato ai prigionieri italiani in Egitto. Rientrata alla fine della guerra in Italia, collaborerà con Rinascita, Noi donne e L'Unità.

Fausta Cialente negli anni '50



Dopo una lunga pausa, il suo ritorno alla narrativa è nel 1961 con Ballata levantina  che sfiorerà lo Strega di quell'anno, in competizione con Delitto d'onore di Arpino,  e  Ferito a Morte di La Capria. 

Scrive Maria Bellonci in Come un racconto gli anni del Premio Strega:

All'ultimo, per un solo voto vinse La Capria e la Cialente e Arpino rimasero indietro di un passo. Sebbene il titolo del premio spettasse a La Capria, si poteva dire che i vincitori erano stati tre: e si palesava così il giudizio critico dei votanti che indicavano un peso non molto dissimile nei tra libri tanto diversi. Dalle pagine della Cialente si alzava quel ritratto prestigioso della nonna in Egitto che è un'apparizione indimenticabile nella narrativa italiana.

Ma l'appuntamento con il Premio Strega era soltanto rimandato, Fausta Cialente lo vinse infatti nel 1976 con Le quattro ragazze Wieselberger che presentiamo qui. 


 Questo l'incipit:

Le sere in cui l'orchestra veniva a suonare in casa la famiglia doveva cenare assai più presto del solito perché la signora e le ragazze, aiutate dalle due domestiche, avessero il tempo sufficiente per sbarazzare la tavola della sala da pranzo e riporre ogni cosa, la grande porta a vetri che la separava dall'entrata sovendo rimaner aperta. Bisognava tenere ben chiusi, invece, tutti gli usci verso la cucina e i "servizi" giacché il padre non voleva sentire durante l'esecuzione - ch'era più che altro una "prova" - gli strepiti delle rigovernature e le chiacchiere, le ciàcole, anzi delle serve. Queste prove si facevano dunque nell'entrata dell'appartamento, ch'era molto ampia e comunicava s'un lato con la sala da pranzo e sull'altro col salotto "buono", in modo che la sonorità piacevolmente si spandeva  e si potevan piazzare le file delle seggiole destinate agli eventuali ascoltatori. I vasi delle piantye ornamentali venivano spinte da parte e si tiravano i tendaggi per dare il maggior spazio possibile agli orchestranti che con le loro sedie e i loro strumenti dovevano stare s'una bassa pedana. Non erano molti, una ventina forse, ma tutto v'era compreso, gli archi, i fiati, gli ottoni; e il padre dirigeva, lui, in piedi s'un basso panchetto posto col leggìo di fronte alla pedana, ma un po' discosto e giusto nel mezzo.
Il direttore d'orchestra, Gustavo Adolfo Wieselberger (1834-1910), che appare in copertina in un ritratto del 1853, quando aveva meno di ventanni, è il padre delle quattro ragazze e nonno dell'autrice: patriarca vecchio stampo, autoritario e un po' brontolone, ma viziato dalle cinque donne di casa che, forti del loro essere maggioranza, non lo temevano affatto. 

Nella cornice incantevole della Trieste fine Ottocento prende l'avvio la storia di questa famiglia borghese, che vive con serenità il proprio benessere, in un ambiente sociale elegante, cosmopolita e tollerante. 

Nel folto paesaggio quotidiano dell'epoca c'era dunque chi portava il turbante e chi il fez, si vedevano le giacche vistosamente ricamate dei montenegrini che giravano quasi sempre con la pistola o il pugnale infilati nella cintura, mentre i turchi indossavano i loro gonfi pantaloni serrati alle caviglie; dal Carso scendevano i monaci eremiti a piedi nudi, i carniolini e le carnioline nelle loro vesti sgargianti, e tutto quel rimescolio si scontrava negli ufficiali della marina inglese, elegantissimi nei loro calzoni bianchi e frac rossi, gli spadini al fianco. I giovani triestini delle già arricchite famiglie avevano carrozze sontuose, a due a quattro cavalli, come forse si vedevano solo a Vienna, a Londra o a Parigi, e certuni avevano perfino i loro gallonatissimi lacchè, due messi davanti, in  serpa, e due dietro, che saltavano su e giù come scimmie ammaestrate per aprire e chiudere gli sportelli, nemmeno fossero sovrani quelli che dentro il cocchio sedevano su cuscini di broccato.
 «Difatti, erano i re del cotone! dello zibibbo e dei fichi secchi!» il padre diceva sorridendo.
 «Anche mio nonno e mio padre immigrarono qui da Vienna, dov'erano nati in piazza Santo Stefano! Ma quando decisero di farsi commercianti o importatori, dimenticarono di aver avuto un avo commissario di guerra alla corte di Maria Teresa, e il von che precedeva il nostro cognome lo lasciarono cadere. Bene hanno fatto, che per vendere carube, farina o uvetta del von non c'era nessun bisogno. Chissà, poi, quanto aveva rubato sulle forniture di guerra quel commissario dell'imperatrice!
» E se una delle figlie scherzando osservava che lui, musicista, il von avrebbe potuto giustamente riprenderselo, alzava le spalle, e come sua moglie esclamava ch'erano sempiezi, stupidaggini, per i quali non valeva davvero la pena di bazilar.

L'aspirazione della ricca borghesia triestina di uscire dall'impero austro-ungarico e fondersi col Regno d'Italia, viene ampiamente trattato nel romanzo, distinguendo lucidamente l'aspetto ideale post-risorgimentale che anima i migliori, per i secolari legami storici, linguistici e culturali con l'Italia, da quelli alimentati da un nazionalismo intriso da profondo disprezzo nei confronti delle popolazioni slovene e croate:  'sti maledeti s'ciavi.

Ciò che più avrebbe colpito chi avesse voluto esaminare da un punto di vista strettamente economico e sociale la questione irredentista intorno agli anni di quelle liete vendemmie e quei balli alla Filarmonica, avrebbe senza dubbio scoperto, o almeno imparato, come per salvarsi dalla secolare oppressione di Venezia Trieste aveva dovuto concedersi ai duchi d'Austria pochi secoli dopo il mille; e per molto tempo aveva vivacchiato sfruttando un hinterland che le era completamente straniero, anche per il linguaggio, ma era il solo retroterra di cui poteva disporre. 
La storia della famiglia si snoda attraverso gli anni della prima guerra mondiale, nel primo dopoguerra, con l'affermarsi della dittatura fascista, e quindi l'altro periodo buio della seconda guerra mondiale.

II fratello di Fausta Cialente, Renato (1897-1943), fu un grande attore di teatro e cinema, iniziò la sua  carriera giovanissimo con Ermete Zacconi, fece compagnia con Elsa Merlini nel 1934, e con Andreina Pagnani nel 1938. Oltre 30 i film girati.



 Nel 1943, a Roma,  fu travolto e ucciso da un automezzo tedesco, un'ambulanza, all'uscita del Teatro Argentina dove aveva recitato con enorme successo, in L'albergo dei poveri di Gorkij.

 http://www.treccani.it/enciclopedia/renato-cialente_%28Dizionario-Biografico%29/

Uno strano incidente, incomprensibile, se non si fa riferimento all'attività antifascista e antinazista della sorella al Cairo per conto degli Inglesi, ma anche per l'impegno antifascista  che manifestava nelle scelte del suo repertorio teatrale.

I nazisti non erano nuovi a questo procedimento di eliminare personaggi scomodi, facendo affidamento sulla fatalità. Era già successo al poeta ceco Jiří Orten (1919-1941) di essere ucciso sempre da un'ambulanza tedesca, nella Praga occupata nel 1941.

Jiří Orten


Un libro bellissino, da leggere assolutamente.

mercoledì 11 febbraio 2015

Francesco Duscio - LA ROMANESCA - Cucina Popolare & Tradizione Romana - Fuoco Edizioni 2014 - € 12,00


Finalmente un libro di argomento culinario che rompe la banalità cui tendono le molte trasmissioni televisive, dove guru furbacchioni alla ricerca della popolarità, spingono l'acceleratore dell'originalità a tutti i costi, rischiando di farci perdere la bussola delle nostre origini, in un'omologazione contraria al buon senso prima che al buon gusto.

Questo delizioso vademecum della cucina popolare e tradizione romana di Francesco Duscio, architetto, con la passione per la storia e la tradizione della propria città, si differenzia da ogni altro libro di genere perché non si limità ad elencare ricette, ma le arricchisce fornendoci utili e gustosi aneddoti storici su prodotti, luoghi, abitudini della tradizione culinaria sia romana classica che romanesca.

Dopo l'interessante prefazione di Maurizio Di Paolo, già il primo capitolo ci introduce in una tradizione tipicamente romana legata alla notte di S.Giovanni: la famosa lumacata (o ciumacata, in romanesco) che mi ha riportato di colpo agli anni della mia infanzia, alla visione della lunga e chiassosa teoria di tavolini imbanditi che da Santa Croce in Gerusalemme (dove vivevo) su per via Carlo Felice, fino a S.Giovanni e oltre, dove allegre famiglie consumavano il rito di mangiare lumache.

Belle che andate pe' li sette sonni,
svejateve, 'stanotte è San Giovanni.
E' notte d'incantesimi, è notte de magia,
le streghe, in groppa ai diavoli, volano in compagnia...

La piacevolezza di questa lettura è anche dovuto alla sapiente scansione dei capitoli, che non è banalmente divisa tre antipasti, primi, secondi ecc. ma, come anticipa l'autore:

Ogni capitolo del libro si sviluppa per temi e argomenti legati alla genesi delle ricette romanesche, alternando escursioni storico-gastronomiche ed aneddoti e curiosità, con sconfinamenti nella leggenda.
Divertente e arguta la distinzione tra cucina romanesca e la cucina dei cugini laziali (peraltro indispensabile e necessaria) nel XVIII capitolo, dove il riferimento alla storica rivalità calcistica  è momento di spassoso sfottò.

Ho trovato La Romanesca,  indipendentemente dalle ricette, che sono sacrosante e precise, un libro godibile, da leggere non solo in funzione di un piatto da preparare, ma per immergersi nella cultura tradizionale romana, nello stesso modo che la lettura dell'Artusi consente di penetrare nella cultura gastronomica della borghesia dell'ottocento.