giovedì 8 marzo 2012

Gianna Manzini - LA SPARVIERA - Mondadori 1956 - £ 1.000




"Mentre il bidello, con un pacco di vignette sotto braccio, apriva la porta, entrò nell'aula dell'asilo d'infanzia una ventata caldo-umida di novembre, portando, sopra un odore di scarpe nuove e di legni lucidati, una fragranza di caldarroste; e, insieme, un segreto scompiglio, forse la vibrazione di un aereo che passava alto, e un suono di clacson, e un vocìo come di litigio; ma anche il bacillo della tosse convulsa.

In una lieve scia di pulviscolo chiaro - appunto il gesso di una serie di "o", allora allora cancellata dalla lavagna - esso ristette con l'indolenza che rende poi sbalorditivo il suo aggredire; e calava adagio quando l'insegnante dall'alto della sua cattedra, mostrò un gattino di gomma, lo premette per farlo miagolare e promise: "Lo regalerò al più buono di voi".

"Mio mio" non si tenne dal gridare Giovanni. In punta di piedi, protese le braccia e il volto sfavillando.

"Mio" ripeté, travolto da un impeto di giuliva pazzia, che gli faceva rovesciare indietro la testa e gli scomponeva i riccioli.
In quel momento, la tosse gli scese zitta in mezzo al petto."

L'improvvisa folata di vento con cui inizia questo appassionato romanzo esistenziale, che percorre i meandri della psiche con una leggerezza e una narrazione davvero singolari, condizionerà tutta l'esistenza del suo sfortunato protagonista.

Durante l'eternità di un trimestre, solo, parlava alla "Sparviera" che ormai lo abitava: "dorme" diceva con l'indice sulla punta del naso, impedendosi la risatina che avrebbe potuto svegliarla; e talvolta, in attesa, stralunato: "eccola". Infatti, quella, giù a dibatterglisi dentro con urla selvagge; e mai che si potesse sottrarlo a quel tempestare.

Non è corretto, e non è mia abitudine, raccontare il libro, rischiando di togliere il piacere vero della scoperta, rappresentato dalla lettura. Dirò solo che il romanzo è scritto con una prosa sontuosa e precisa, che invita a centellinare la lettura, come un vino prezioso, poco adatto ai palati grezzi, guastati dai fast food culturali:
Stella dovette allora accarezzargli la mano: "incantata, incantata" ripeteva. E le labbra modellavano inesauribilmente quel suo meraviglioso sorriso: distendendosi, stirandosi, lo riducevano puro disegno, leggero, sfumato, un emblema; schiudendosi, appena raccolte, lo rendevano terribilmente ricco ed intenso: sì che poteva essere il petalo d'un fiore o la polpa di un frutto, un'immagine o un gorgo; poteva appartenere a un demonio, o a un angelo, a una bambina demonio, o a una ragazza angelo. Miracoli d'attrice, oltre tutto.

La lenta ricostruzione della propria vita, connettendo ricordi spaiati o rimossi, è il graduale, necessario itinerario interiore che Giovanni dovrà percorrere per conoscere, nella natura della Sparviera, il proprio destino.

L'affanno aumentava.
Marisa voltava continuamente la testa per nascondere le lacrime.
Poi ci fu una gran quiete. La febbre era caduta quasi del tutto.
Giovanni si meravigliava di non soffrire: ché non è poi una vera sofferenza l'oppressione che ostacola parola e respiro.

Trafelata, come una che rincasi fuori d'ora, ma ormai non più furtiva, anzi con una certa arroganza scontrosa, ricomparve la Sparviera, incappucciata dalla testa ai piedi. Un odore di foglie macerate, di sottobosco sotto la pioggia, di terra vangata, addensò in un paesaggio profondo tutta la strada da lei percorsa: per cui caddero le pareti della stanza, ed egli vide, come ritagliati in un blocco di ghiaccio, il bosco di noccioli e castagni, e poi radure con alberi più leggeri d'un soffio, e profili e profili di città con altissime torri e campanili. Un mondo gelido, violentemente ammesso e dominato da lei.
Premiato a Viareggio nel 1956, insieme a Carlo Levi per Le parole sono pietre, La Sparviera rimane un esempio di narrativa alta, di letteratura vera, destinata a durare negli anni.

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