sabato 29 dicembre 2012

Pier Paolo Pasolini - SCRITTI CORSARI - Garzanti 1977 - £ 2.000



Questo è il classico libro da comodino, da sfogliare con assiduità, e a cui tornare per approfondire concetti complessi: i nostri rapporti con la politica, in che tipo di società viviamo, la presenza della chiesa in Italia, il fascismo vecchio e nuovo, i partiti della sinistra, le lotte, le rivendicazioni, il sesso e la società dei  consumi.

La lettura di Scritti corsari (1975), che furono pubblicati postumi, ma di cui Pasolini aveva già curato le bozze, ci riconfermano la gravità dell'assenza di quest'uomo  scomodo, e delle lucide analisi che  avrebbe certamente formulato sulla nostra squallida realtà odierna.

Troppo complicato analizzare o semplicemente citare tutti gli argomenti trattati, mi limiterò a ricordarnee un solo, quello dei Jesus.

Indimenticabile per le polemiche che suscitò all'epoca, l'articolo del 17 maggio 1973 sul Corriere della sera dal titolo Il folle slogan dei jeans Jesus, mentre nel volume il titolo è Analisi linguistica di uno slogan. 

Per i giovani che non hanno vissuto quegli anni e visto i manifesti, ricordiamo che la campagna pubblicitaria dei Jesus, primo jean italiano prodotto  dal Maglificio Calzificio Torinese (MCT),  era stata affidata ai pubblicitari Oliviero Toscani e Emanuele Pirella.



Scriveva Pasolini:

Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre dei "jeans Jesus": "Non avrai altro jeans all'infuori di me", si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità - subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte - faceva troppo ragionevolmente prevedere.
Si veda la reazione dell'"Osservatore romano" a questo slogan: con il suo italianuccio antiquato, spiritualistico e un po' fatuo, l'articolista dell' "Osservatore" intona un treno, non certo biblico, per fare del vittimismo da povero, indifeso innocente. E' lo stesso tono con cui sono redatte, per esempio, le lamentazioni contro la dilagante immoralità della letteratura o del cinema. Ma in tal caso quel tono piagnucoloso e perbenistico nascone la volontà minacciosa del potere: mentre l'articolista, infatti facendo l'agnello, si lamenta nel suo ben compitato italiano, alle sue spalle il potere lavora per sopprimere, cancellare, schiacciare i reprobi che di quel patimento son causa. I magistrati e i poliziotti sono all'erta; l'apparato statale si mette subito diligentemente al servizio dello spirito. Alla geremiade dell'"Osservatore" seguono i procedimenti legali del potere: il letterato o cineasta blasfemo è subito colpito e messo a tacere.

E dopo aver analizzato il doppio legame di malafede che lega Chiesa e Stato borghese, sia durante il fascismo che dopo con i governi democristiani, prosegue profeticamente:

La Chiesa ha insomma fatto un patto col diavolo, cioé con lo Stato borghese. Non c'è contraddizione più scandalosa infatti che quella tra religione e borghesia, essendo quest'ultima il contrario della religione. Il potere monarchico o feudale lo era in fondo meno. Il fascismo, perciò, in quanto momento regressivo del capitalismo, era meno diabolico, oggettivamente, dal punto di vista della Chiesa, che il regime democratico: il fascismo era una bestemmia, ma non minava all'interno la Chiesa. perché esso era una falsa nuova ideologia. Il Concordato non è stato un sacrilegio negli anni trenta, ma lo è oggi, se il fascismo non ha nemmeno scalfito la Chiesa, mentre oggi il Neocapitalismo la distrugge. L'accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l'accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l'ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un  errore strategico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino.

Mi domando, chi - nel panorama politico- culturale italiano -  oggi, possiede il coraggio civile l'integrità morale, la coerenza politica per parlare in questi termini di Santa Romana Chiesa?

Ma l'interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo in cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente rappresenta: c'è in esso  un interesse  anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, quello dell'intero mondo tecnologico. Lo spirito blasfemo di questo slogan non si limita a una apodissi, a una pura osservazione che fissa la espressività in pura comunicatività. Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata (il cui modello è l'anglosassone "Cristo super-star"): al contrario, esso si presta a un'interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi nello slogan i caratteri ideologici e estetici dell'espressività. Vuol dire- forse - che anche il futuro che a noi - religiosi e umanisti - appare come fissazione e morte, sarà in un modo nuovo, storia; che l'esigenza di pura comunicatività della produzione sarà in qualche modo contraddetta. Infatti lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi - sia pur incoscientre - che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo. L'articolista dell' "Osservatore" questa volta sì è davvero indifeso e impotente: anche se magari magistratura e poliziotti, messi subito cristianamente in moto, riusciranno a strappare dai muri della nazione questo manifesto e questo slogan, ormai si tratta di un fatto irreversibile anche se forse molto anticipato: il suo spirito è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori.


Scritti corsari è una miniera inesauribile di argomenti, analisi e provocazioni, polemiche e invettive come solo un uomo veramente libero poteva onestamente fare.


giovedì 27 dicembre 2012

Jorge Amado - JUBIABA' - Einaudi 1976 - £ 3.500



Di tutti i grandi autori si dovrebbero leggere le  opere nell'ordine cronologico in cui sono state scritte, ma questo non è sempre possibile, specialmente per gli autori che leggiamo in traduzione. Questo Jubiabà di Amado che è del 1935 è stato tradotto e edito in Italia nel 1952.

Dico questo perché dopo aver letto  Dona Flor e i suoi due mariti (1966) e Tocaia grande (1984), questo Jubiabà mi ha coinvolto meno dei precedenti. Troppe ripetizioni che rallentano il ritmo e situazioni che ricordano in modo esasperante i romanzi d'appendice ottocenteschi.

Come la storia della bella e ricca Lindinalva - il grande amore di Antonio Balduino -  che da giovane e altera ereditiera è costretta dopo la morte del padre, per una serie di disgrazie indipendenti dalla sua volontà, a prostituirsi, e,  sul letto di morte, affidare al suo amico d'infanzia Balduino il figlio del peccato. Qui siamo nelle atmosfere care alla nostra Carolina Invernizio.

La colpa è mia, avrei dovuto leggere Jubiabà prima e non dopo Dona Flor e Tocaia grande.

Comunque, sia chiaro, a me piace moltissimo Jorge Amado e per quanto lo legga in traduzione percepisco la bellezza della sua prosa, rimango affascinato come dalle sue storie emerga prepotente l'essenza stessa del Brasile, specialmente Baía de Todos os Santos con le sue favelas, con la sua cultura e i suoi riti sincretici.

Il romanzo, ricordiamo che è del 1935, ha evidentemente anche un valore didattico nella  denuncia delle terribili condizioni economiche delle classi lavoratrici.

Al centro del pensiero di Amado, che ha militato per anni nel partito comunista, c'è la speranza nel riscatto sociale del suo popolo e infatti Antonio Balduino, che  rifiuta la schiavitù del lavoro e sogna di diventare  cangaço come il grande Lampeão, si salverà scoprendo attraverso un grande  sciopero, la lotta di classe.

sabato 22 dicembre 2012

Dino Buzzati - UN CASO CLINICO - La Medusa degli Italiani - Mondadori 1953 - £ 600



 Ho comprato questo libro il 16/IX/1960 (così ho annotato all'interno), dopo aver già letto di Buzzati i Sessanta Racconti,  che per me rimangono le sue cose migliori, perché la forma del racconto è quella che meglio si adatta alle sue tematiche.


Un caso clinico è una commedia in due tempi e 13 quadri del 1953, che Buzzati sviluppò dal racconto Sette piani (1937), pubblicato poi nella raccolta I sette messaggeri (1942) e infine nei Sessanta racconti (1958). Nel 1967 Tognazzi lo porta sullo schermo con il titolo Il fischio al naso di cui è interprete e regista.


                                      




E' la storia di un uomo ricoverato al settimo piano di una clinica per una malattia ritenuta leggerissima il quale si vede via via trasportato, come per forza di incomprensibili errori, nei piani inferiori destinati progressivamente ai malati più gravi, finché giungerà al piano terreno dove lo attenderà la morte.

Ovviamente la storia è identica sia nel racconto che nella pièce, quello che cambia è il maggiore approfondimento, nella versione teatrale, della personalità del protagonista, l'industriale Giovanni Corte.

Il lento progresso verso la morte avviene con l'inesorabilità che hanno gli incubi, piano dopo piano, in una angosciosa discesa che niente e nessuno può fermare.

domenica 16 dicembre 2012

Gabriel Garcia Màrquez - UN GIORNALISTA FELICE E SCONOSCIUTO - Feltrinelli -1974 - £ 8.000


Ci sono scrittori famosi che sono stati, all'inizio della loro carriera di narratori, giornalisti affermati, ma i cui articoli e corrispondenze, da subito lasciavano presagire la futura evoluzione, cioé prefiguravano in qualche modo il romanziere che era in loro.  Credo che Dino Buzzati e Garcia Marquez siano due autori esemplari per avvalorare questa tesi.

Diceva Buzzati, storico giornalista del Corriere, inviato sperciale e corrispondente di guerra,  che "dal punto di vista della tecnica letteraria il giornalismo è una scuola esemplare".

A me sembra che le opere di Buzzati e di Marquez siano come pervase da un'alchimia, una chiave narrativa particolarmente congeniale ad entrambi, che è la fusione di fantastico e cronistico.

Questo libro edito nel '74 raccoglie solo alcuni degli articoli che nel 2001 saranno pubblicati integralmente da Mondadori con il titolo  Dall'Europa e dall'America 1966-1960, corrispondenze dell'inviato speciale Garcia Màrquez del quotidiano colombiano El Espectador.

Il primo di questa ineffabile collezione di dodici articoli è intitolato L'anno più famoso del mondo, ed è una panoramica dei fatti accaduti in quel lontano anno; letti oggi sembrano  tanto lontani da sembrare cronache da un altro mondo. L'articolo è costruito come se l'intera storia dell'umanità, anche nei suoi aspetti più marginali, ruoti intorno alla data del 1957, ed inizia così:

L'anno internazionale 1957 non cominciò il primo gennaio, cominciò il 9, mercoledì, alle sei di sera, a Londra. In quell'ora, il primo ministro inglese, il bambino prodigio della politica internazionale, Sir Antony Eden, l'uomo che veste meglio nel mondo, aprì la porta del 10, Downing Street, sua residenza ufficiale, e fu quella l'ultima volta che l'aprì in qualità di primo ministro. Col cappotto nero dal bavero di peluche, con in mano la tuba delle occasioni solenni, Sir Antony Eden aveva appena partecipato a un burrascoso consiglio di governo, l'ultimo del suo mandato, l'ultimo della sua carriera politica. Quella sera, in meno di due ore, Sir Antony Eden fece la maggior quantità di cose definitive che un uomo della sua importanza, della sua statura, della sua educazione, può permettersi in due ore: ruppe coi suoi ministri, andò a visitare la regina Elisabetta per l'ultima volta, presentò le dimissioni, fece le valigie, lasciò libera la casa e si ritirò a vita privata.

Il secondo articolo, Kelly esce dalla penombra, ricostruisce l'avventurosa evasione da una prigione cilena di Patricio Kelly, capo della Alianza Revolucionaria Argentina, avvenuta con la complicità della poetessa uruguayana Blanca Luz.  Ricercato in tutta l'America latina, Patricio Kelly dimostrò  come il rifugio più sicuro per un evaso non potesse essere altro che la vita normale, utilizzando il proprio nome e frequentando grandi alberghi.

Il clero in lotta, è la cronaca della caduta del regime  dittatoriale di Carlos Pérez Jimenez, avvenuto anche per la partecipazione delle gerarchie ecclesiastiche che facevano capo a Monsignor Carrillo, che fu ferito nella chiesa, piena di fedeli che vi si erano rifuggiati, assediata e attaccata militarmente.

Addio Venezuela racconta con dovizia di particolari e cifre, come dopo la cacciata di Jimenez nel Venezuela gli stranieri, ad iniziare dagli italiani, abbandonavano il paese essendo sgraditi ai venezuelani, che ritenevano fossero stati favoriti dalla dittatura. 

Soltanto 12 ore per salvarlo è il drammatico racconto della corsa contro il tempo per salvare una vita, qui la bravura  consiste nel giusto dosaggio tra  informazione e pathos: 
A questo bambino di 18 mesi, condannato a morte per la leggera morsicatura di un cane, restava un solo sabato di vita. L'unico farmaco che poteva derogare la sentenza si trovava a 5.000 Km.

In Mio fratello Fidel, Marquez intervista la sorella del giovane rivoluzionario da poco sbarcato a Cuba col Gramna:


"Io non ammiro Fidel come fratello," dice. "Lo ammiro come cubana." Ma nel corso della sua conversazione placida e discreta, in uno spagnolo scorrevole e deciso, senza accento cubano, Emma Castro rievoca un'immagine di Fidel del tutto diversa, più umana dell'immagine creata dalla pubblicità. (........)
Emma Castro vide Fidel per l'ultima volta due ore prima dell'imbarco sulle navi della spediziome verso Cuba. Abitava nella casa di una famiglia amica - la casa della sua vecchia e fraterna conoscente Orquìdea Pino Gutiérrez - ed era informata dei progetti dei fratelli. Il 25 novembre 1956, dopo cena, Fidel e Raul andarono a concedarsi da lei. Allora non avevano l'aspetto guerrigliero che mostrano ora i loro ritratti. Fidel indossava un vestito blu scuro, impeccabile, con cravatta a righe. Come annuncio incipiente della sua barba messianica, esisteva soltanto il paio di baffetti lineari e un po' affettati degli innamorati antigliani. Fidel spalancò le braccia e le disse: "Bene, l'ora è arrivata."
Una lettura piacevole, arguta e nel complesso un'opera che esalta l'abilità di Marquez di trasformare anche  i fatti quotidiani in eventi straordinari.   

giovedì 13 dicembre 2012

Richard Hough - LA VERA STORIA DELL'AMMUTINAMENTO DELLA "POTËMKIN" - Club degli Editori - 1974 - Riservato agli aderenti al C.d.E.



Quella fucina in ebollizione che fu Arnoldo Mondadori, nel 1960, per promuovere i libri e la lettura, dopo aver portato con gli Oscar settimanali i libri nelle edicole - fino ad allora riservate esclusivamente a giornali e riviste -  partorì una nuova idea: il Club degli Editori, che doveva portare i libri, quasi sempre già pubblicati,  direttamente nelle case degli italiani, per corrispondenza.

Il successo dell'iniziativa fu immediato, vuoi per le condizioni particolarmente vantaggiose al momento dell'iscrizione, vuoi per i prezzi convenienti rispetto alle edizioni destinate alle librerie, ma sopratutto per il subdolo meccanismo del silenzio-assenso. Infatti, mensilmente arrivava a casa la Rivista del club che proponeva un certo libro, se entro il breve lasso di tempo stabilito non si provvedeva alla disdetta - e normalmente accadeva proprio così - puntualmente la posta te lo  recapitava! 

Questo che presento oggi fa parte della collana storica IERI OGGI, riservata agli aderenti il Club; gli altri titoli della collana in mio possesso sono: il Giornale di Bordo di Cristoforo Colombo, la Storia della Rivoluzione Francese di Alessandro Manzoni  e le Memorie di un Italiano Terribile di Felice Orsini.

L'autore è Richard Hough (1922-1999) scrittore e storico navale, con numerose pubblicazioni al suo attivo e autore di romanzi per ragazzi, sotto lo pseudonimo di Bruce Carter.



Della Corazzata Potëmkin più o meno tutti conosciamo la storia, per aver visto il capolavoro di Ejzenstejn, o magari per averne solo sentito parlare grazie alla sequenza di un film comico, dove Fantozzi pronuncia la famosa frase, che riscatta l'italiano medio da un frustrante senso di inferiorità nei confronti della cultura.

Il libro di Hough si avvale delle testimonianze degli stessi partecipanti agli eventi: Matuscenko, il marianio che guidò l'ammutinamento e Feldmann, lo studente di Odessa, agitatore socialdemocratico, che salì a bordo e vi svolse attività politica, ma anche della relazione dell'Addetto Navale Francese e degli estratti dal Moniteur de la Flotte francese.

La differenza sostanziale tra La vera storia dell'ammutinamento della Potëmkin e il film di Ejzenstejn è che il primo racconta i fatti accaduti nella loro cruda realtà, mentre l'altro è un film di propaganda, che nel progetto doveva essere il primo episodio di otto film che raccontassero i fatti di quegli anni, una costruzione, insomma,  tesa a trasmettere emozioni allo spettatore, con i criteri della tragedia classica, in cinque atti.




Il libro racconta la situazione socio-economica di Odessa, prima ancora dei drammatici fatti della Potëmkin, così apprendiamo anche che la famosa scalinata, centrale nella rappresentazione del film di  Ejzenstejn, si chiama scalinata Richelieu, dal nome del Governatore di Odessa nel 1803, scampato dalla Rivoluzione francese e  pro-pro-nipote del famoso cardinale Richelieu, al quale risaliva in buona misura il merito dello sviluppo e dell'importanza che la città doveva assumere in seguito.

Il racconto avvincente di uomini che, forse involontariamente, hanno determinato la storia del loro paese.



 Qui il film completo, con sottotitoli in italiano:

http://www.youtube.com/watch?v=ptxoW8z2DL0

mercoledì 12 dicembre 2012

Carlo Levi - CRISTO SI E' FERMATO A EBOLI - Biblioteca Moderna Mondadori 526 - 1960 - £ 350



Dopo quasi quarant'anni sto rileggendo questo classico della letteratura italiana. E' accaduto per caso: sfogliavo un romanzo poco noto di Pavese Il carcere  del 1948, che racconta in terza persona la sua esperienza nel  soggiorno obbligato a Brancaleone Calabro, dove era stato condannato nel 1935 a tre anni di confino, pensando di scriverne su questo blog. 

Per associazione di idee, mi è venuto in mente Carlo Levi e il suo soggiorno obbligato in Lucania nel 1934 e ho raffrontato le due esperienze:  mentre Pavese sceglie la forma romanzo per raccontare una storia di solitudine individuale, questa di Carlo Levi è un'opera difficilmente inquadrabile nei tradizionali generi letterari, un po' diario, un po' saggio storico, politico, etnografico e antopologico, è, per dirlo con le parole dell'autore, la scoperta di un'altra civiltà, fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Me ne sono di nuovo innamorato e ho iniziato a rileggerlo.

Mi chiedo se le nuove generazioni conoscono Carlo Levi? Chissà se la scuola, con l'ambiguità con cui tratta i classici, nella migliore delle ipotesi inserendo qualche brano in una antologia, non contribuisca a estraniarli dal semplice piacere della lettura.

Carlo Levi (1902-1975), nasce in una famiglia ebraica benestante della borghesia torinese,  si laurea in medicina ma la sua vera passione è la pittura; è in contatto con Felice Casorati e gli esponenti dell'avanguardia, espone alla Biennale di Venezia del 1924; frequenta Piero Gobetti e collabora alla rivista Rivoluzione Liberale, conosce Antonio Gramsci e scrive sul suo Ordine Nuovo, a Parigi è in amicizia con Modigliani, frequenta i pittori della corrente fauve e  la sua pittura in qualche modo è influenzata dalla Scuola di Parigi.

In un certo senso il grande successo di Cristo si è fermato a Eboli ha oscurato la pregevole attività pittorica di Carlo Levi, che è stato anche Senatore per due legislature, nel 1963 e 1968, eletto tra gli indipendenti con il PCI.


Questo l'incipi del libro:

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si chiama la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla.  Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell'altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.
- Noi non siamo cristiani, - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli.

Levi analizza i motivi dell'estraneità dei contadini lucani rispetto allo Stato:

Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

L'enorme interesse di quest'opera, secondo me,  è dato dalla penetrante osservazione che opera del territorio e di uomini prima che l'omologazione consumista, come un gigantesco bulldozer, appiattisse tutto, scompaginando una realtà contadina millenaria, che solo in tre momenti ha trovato la forza di una disperata difesa: contro l'invasione fenicia, contro le legioni romane e contro gli invasori garibaldini, dando vita al brigantaggio.


Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgesse uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente la più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c'è stata sempre. Humilemque vidimus Italiam: questa era l'umile Italia, come appariva ai conquistatori asiatici, quando sulle navi di Enea doppiavano il capo di Calabria. E pensavo che si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia. Questa Italia si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure, e quello che di eterno è passato su di lei, non ha lasciato traccia, e non conta. Soltanto alcune volte essa si è levata per difendersi da un pericolo mortale, e queste sole, e naturalmente fallite, sono le sue guerre nazionali.



Quando la sorella Caterina, medico anch'essa, va a trovarlo a Gagliano (come Carlo Levi chiama nel libro il paese di Aliano) testimonia con parole indimenticabili la situazione sociale e sanitaria che ha incontrato a Matera: l'abbandono nel quale li vivono le popolazioni, (siamo nel 1935 e in tutta Italia si cantava "Faccetta nera" e si inneggiava all'Impero)  nentre qui...
Ho visto dei bambini seduti sull'uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili e non le scacciavano neppure con le mani. Si, le mosche gli passeggiavano sugli occhi, e quelli pareva non le sentissero. Era il tracoma. Sapevo che ce n'era, quaggiù: ma vederlo così, nel sudiciume e nella miseria, è un'altra cosa. Altri bambini incontravo, coi visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria.

I bambini  gli si affollavano intorno per chiedere l'elemosina di qualche pasticca di chinino!

Carlo Levi durante il confino non avrebbe voluto esercitare la professione medica, anche perché riteneva di non avere l'esperienza necessaria, ma  fu costretto dalle circostante a farlo guadagnandosi la fiducia e l'affetto dei contadini lucani. Quando alle autorità propose un piano igienico-sanitario per combattere la malaria, ricevette in cambio la proibizione ad esercitare la professione medica, che invece continuò a praticare clandestinamente.

Dipinse molto in quel periodo, e quando col bel tempo dipingeva en plein air, era scortato  da un codazzo di bambini che lo aiutavano portando cavalletto, tele e colori. Sui bambini le osservazioni di  Carlo Levi sono precise e benevoli:


Tutti questi bambini avevano qualcosa di singolare; avevano qualcosa dell'animale e qualcosa dell'uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore.  (.....)
Andavano tutti a scuola, l'istruzione è obbligatoria, ma, con quei maestri, ne uscivano analfabeti. Così presero l'abitudine di venire qualche volta la sera a scrivere nella mia cucina. Rimpiango di non aver dato loro, per la mia naturale ripugnanza a tutto ciò che è insegnamento diretto, più tempo e più cura: un buon maestro non avrebbe mai potuto trovare una migliore scolaresca, né più ricca di una quasi incredibile buona volontà.
Come con tutti i grandi libri, ora che è finita la ri-lettura già ne sento la nostalgia.

Qui due splendidi documentari dove si vedono molte opere di Carlo Levi:

 https://www.youtube.com/watch?v=NUQDptjVVnM
 https://www.youtube.com/watch?v=xelUkNRDbUE

venerdì 30 novembre 2012

Fernanda Pivano - COS'E' PIU' LA VIRTU' - Rusconi 1986 - £ 18.000



La biografia di Fernanda Pivano (1917-2009) è un corposo episodio della storia culturale italiana e la sua vita sembra una sceneggiatura scritta per Hollywood.

 In attesa di leggere i suoi Diari (due volumi dei Classici Bompiani del 2008 e 2010) per approfondire questa familiarità che sento nei suoi confronti, apprendo dal web che nasce a Genova da una famiglia che lei definisce vittoriana; il padre, Riccardo, è un miliardario colto e illuminato proprietario di una banca, il nonno è il fondatore della Berlitz School, la madre è la bellissima Mary Smallwood. E' compagna di classe al ginnasio di Primo Levi, nella stessa scuola frequentata da Gianni Agnelli, come supplente di italiano ha Cesare Pavese; nel 1940 si diploma al Coonservatorio di Torino in pianoforte, nel 1941 si laurea in lettere con una tesi su Moby Dick, nel 1943 si laurea in filosofia sotto la guida di Nicola Abbagnano.

 Una ragazza favorita dalla lotteria della vita, per condizioni familiari e ambientali, ma sicuramente con una forte determinazione a realizzarsi, studiando e lavorando sodo, come una volta era usuale.

Figura di rilievo nella scena culturale italiana per il suo contributo alla divulgazione della letteratura americana attraverso le sue traduzioni, saggi, articoli, antologie e opere biografiche, per la prima volta si cimenta con il romanzo, questo  Cos'è più la virtù, scintillante e lieve come un'aria d'opera e a un tempo profondamente vissuto, quasi una lunga confessione, come recita puntualmente la seconda di copertina.

Si tratta di una divertente e divertita serie di episodi - storie quasi d'amore -  nelle quali la protagonista, che somiglia come una goccia d'acqua alla narratrice, si trova coinvolta da corteggiatori, dai più raffinati ai più grossolani, che cercano in tutti i modi  di portarsela a letto.

Vincerà la virtù che è un valore appreso fin da bambina e che le lotte di emancipazione sessuale dal '68 in poi non hanno scalfito.

Dall'assidua frequentazione con i grandi e grandissimi della letteratura americana, ha ricevuto la capacità  di tessere la narrazione con dialoghi scoppientanti che rendono la lettura estremamente godibile.

Confessa la protagonista nelle ultime pagine:
Non invidio le donne belle, perché sono stata bella anch'io. Non invidio le donne ricche, perché sono stata ricca anch'io. Non invidio le donne amate, perché sono stata amata anch'io, tanto, tantissimo. Ma sapessi quanto invidio le puttane.


mercoledì 21 novembre 2012

Alessandro Piperno - CON LE PEGGIORI INTENZIONI - Mondadori 2006 - € 5,00









E' mio fratello maggiore Mario (che da sempre acquista tutto ciò che viene pubblicato) a passarmi  i libri che devo leggere assolutamente (anche perché così riesce ad alleggerire la sua libreria). E' il caso di questo libro di esordio di Alessandro Piperno, Con le peggiori intenzioni.

Benché non sia mai rimasto deluso dalle sue indicazioni, ho accettato questo  libretto con diffidenza per un fatto estetico: un volume squilibrato: oltre 300 pagine in formato 11x18, brutta la carta (speriamo almeno riciclata) in contrasto con una rilegatura accurata,  copertina in cartoncino pesante lucido, ma l'occhiello (sopratitolo),   il richiamo (con un giudizio critico) e la foto, lo rassomigliano alla copertina di un settimanale piuttosto che a un libro, poi lo giro e leggo I MITI € 5,00.

Non sono contrario ai libri economici: vendere romanzi di buona qualità al prezzo di un pacchetto di sigarette è stata una grande invenzione, che Arnoldo Mondadori ha saputo replicare (dopo  trent'anni dalla Penguin) con un grande successo, rivoluzionando anche la distribuzione. Ma gli Oscar erano addirittura  eleganti nella loro semplicità, questi Miti mi sembrano decisamente pacchiani.

Ma che sorpresa questo romanzo di  Alessandro Piperno!

Questa gradevole - a volte esilarante - saga dei Sonnino, ebrei di Roma, è stato una vera epifania, costruita sapientemente, alternando con  abilità i piani narrativi per rendere fluente il racconto, utilizzando un linguaggio arguto al limite dell'umoristico.

Così presenta nell'incipit  il nonno Bepy:

Bepy sentì di non aver scampo diverse ore dopo aver incassato la diagnosi di tumore alla vescica, quando tra il novero sterminato d'interrogativi agghiaccianti scelse: Potrò ancora scopare una donna o tutto finisce qui?
Sebbene tale dilemma possa apparire una patologica inversione delle priorità, per lui, nell'estremo frangente, risultò più spaventoso lo spettro della compromessa mascolinità che l'orrore del nulla: forse perché nel suo immaginario impotenza e morte coincidevano, anche se la seconda era preferibile alla prima, se non altro per il conforto dell'assenza eterna... O forse il salto nel buio che aveva condotto quest'uomo di successo alla bancarotta finanziaria era stato troppo fulmineo per non scalfirgli l'integrità emotiva.
Parlando dei nonni Bepy e Ada e della sua famiglia, sembra affiorare quell'ironia dissacrante che Woody Allen riserva alla religione ebraica e agli ebrei:


 Avendo ingerito, dopo una confortevole adolescenza, la dose di frustrazione erotica che furono, al postutto, le leggi antiebraiche del '38, letteralmente contagiati dall'epidemica allegria postbellica, questi giudei della Roma "bene" avevano sostituito - con che estemporaneità - al terrore per Benito Mussolini e Adolf Hitler la mimetica venerazione per Clark Gable e per Liz Taylor. Era come se quella clownesca coppia di dittatori fascisti non fosse mai esistita, come se - nei cuori di tutti i Bepy italiani - essa fosse stata sepolta insieme alle carcasse indistinte delle centinaia di parenti deportati: il nugolo di cugini, cognati, sorelle, suoceri e nipotini i cui resti ormai avrebbero potuto occupare un paio di buste per l'immondizia, di cui era severame vietato parlare e della cui fine nascostamente ci si vergognava. Cancellati, ancor prima che dalla faccia della terra, dalla memoria dei congiunti sopravvissuti: come se i loro stracci e le loro magrezze infernali, le loro morti senza identità, minutamente documentate da quelle orrende foto in bianco e nero, fossero inadatte allo scintillio delle argenterie o al brio euforizzante dei cocktail di quegli anni fantastici. O come se quella follia di diabolica malvagità che s'era abbattuta sui Sommersi avesse autorizzato i Salvati a una disinvolta spregiudicatezza: era per questo - solo per questo? - che non esisteva un solo individuo nel milieu di Bepy e Ada che non si sentisse autorizzato a violare i precetti borghesi, avanzando sessuali profferte alla moglie del migliore amico o alla figlia minorenne del collega più caro?
Evidentemente l'inferno aveva abolito il proibito. Se questa rimozione collettiva non fosse esistita, come avrebbe fatto nonna Ada - cui i nazisti avevano annientato (anche se in famiglia per delicatezza si preferiva l'eufemistica espressione "portato via") le due cuginette piccole e una dozzina d'altri affini - a partecipare con tanta commozione all'essiccamento delle sue ortensie alla fine di ogni estate?


Dal capitolo Mai visto un cadavere così chic:
Nano in abito scuro, sussura dentro di me una voce suadente come lo speaker d'una sfilata di moda: floscio zucchetto blu notte e occhiali da sole rubatia mia madre, anche se non sono graduati, perché fanno molto "funerale americano". Sono quasi bello, studiatamente affranto nel blazer di Brooks taglia junior e con il biondo provvisorio ciuffo che mi carezza la fronte.
L'intramontabile rabbino Perugia dà inizio al rito senza preamboli. Sembra annoiato. Le labbra si muovono appena. L'idea è che le parole gli escano come una giaculatoria mandata a memoria. L'idea è che pur conoscendo l'ebraico, non lo comprenda o abbia smesso da secolidi sentirle.
Ma ecco avanzare, con la lentezza d'un ennesimo carro funebre, una nera Mercedes 500 fresca di autolavaggio, e fermarsi proprio all'altezza dello scuro crocchio, nella piazza antistante la tetra cappella del cimitero ebraico. Come un divo del cinema scende dall'auto Giovanni Cittadini (per gli amici Nanni), amico d'una vita di Bepy e socio truffato: vestito di grigio scuro, un'obra costernata a offuscargli lo sguardo abitualmente nitido. Si tratta di un meraviglioso sessantacinquenne che sa di canfora e gelsomino: giraffona snodabile che, se non ne conoscessi la proverbiale castigatezza, potresti scambiare per una checca contrita (una di quelle omosessualità rattenute che si esprimono attraverso una stizzita misoginia). Anche lui ha lo zucchetto, non richiesto omaggio ai Perifdi Fratelli Ebrei, con effetto comico assicurato: ossimoro deambulante: la sua figura non ha nulla d'ebraico: troppo dinoccolato, troppa sicurezza nell'incedere: Scortato da due effebici ragazzini dal sesso indecifrabile austeramente abbigliati come garçon d'honneur, eccolo passare in rassegna la vedova, il figlio maggiore, il minore, i nipoti e così via in una sequela di convenevoli. Solo ora che mi guarda fisso negli occhi con l'intensità di chi ha tante cose da dire capisco che non ha niente da dirmi. Ancheggia, mettendo continuamente a posto i polsini ingemellati della camicia bianca, come credesse d'essere lui, e non il cadavere, la vera star del cimiteriale rendez-vous.


Adoro questa leggerezza nelle descrizioni degli ambienti e delle persone: il riuscire sempre a mettere in evidenza gli aspetti paradossali che si nascondono nella quotidianità.


Nel frattempo Piperno ha vinto il Premio Strega 2012 con Inseparabili, il fuoco amico dei ricordi.

domenica 18 novembre 2012

PULP - Letterature di fine millennio - n.01 Aprile-Maggio 1996 - £ 7.000








Di questa splendida rivista di Letterature di fine millennio,   possiedo i primi 10 numeri, la rivista ha cessato le pubblicazioni con il n.73 del 2008. E' stata una rivista che ha descritto il panorama narrativo contemporaneo, privileggiando tutte le forme più  originali, compreso cinema, fumetti, musica rock.

In questo primo numero della rivista, che non apre con la solita dichiarazione d'intenti, ma entra subito nel merito, c'è una lunga, interessante intervista di Claudio Galuzzi (1957-1998) a Paco Ignacio Taibo II che alla domanda cosa sia per lui il romanzo, risponde:

Chi lo sa? Non lo so. Posso solo dire che cosa non deve essere un romanzo. Un romanzo non deve essere una prigione in cui entrano scrittori e lettori. Un romanzo deve essere invece un autentito dialogo, deve sorprendere.
Non c'è cosa peggiore di un libro che una volta aperto, quando si comincia a leggerlo, ci da quello che ci aspettavamo. Cioé non ci meraviglia in nessuna maniera. In questo senso credo che violare e superare i limiti e le strutture interne del romanzo, introdurre la non-fiction nella fiction, mescolare, sconcertare, provocare sorprese, sia un dovere per lo scrittore contemporaneo.


E' di Giano A. Nazzaro (Zurigo 1956), giornalista pubblicista, critico cinematografico e autore di testi dedicato al cinema e alla musica, il breve saggio True romance - La scrittura cinematografica di Quentin Tarantino, dove  viene analizzata l'origine letteraria del suo cinema:
Quella di Tarantino  è una scrittura assorbente che si nutre (letteralmente...) delle infinite suggestioni della junk-culture che è stata l'elemento privilegiato di conoscenza (ossia scoperta del mondo) del giovane Quentin. Nei confronti di questa la sua scrittura non si pone come filtro destrutturante, bensì come strumento mimetico atto a ricreare quel paradiso perduto del trash e dell'autoreferenzialità dei generi cinematografici e dei codici narrativi....

Spiega Tarantino (da una intervista a Graham Fuller):

Per quanto riguarda la scena della tortura di Le Jene, cerco di spiegare in continuazione alla gente che non mi sono seduto dicendo "Ok, adesso scriverò questa scena di tortura violentissima". Quando Mr. Blonde tira fuori dallo stivale il rasoio, io sono stato il primo ad esserne sorpreso. Non sapevo che avesse un rasoio. Questo mi succede in continuazione quando scrivo.

Mentre Fabio Zucchella - direttore di PULP - scrive  Mondo splatter, un articolo che tratta la cosidetta narrativa abietta:

Se i nostri criteri di giudizio fossero soltanto il buon gusto e il nitore stilistico, temo proprio che lo splatter sia spesso qualcosa di inammissibile. Ma questo è un fenomeno inevitabile, trattandosi di narrativa di genere (o de-genere...). Il fatto è che noi andiamo ragionando di un ambito così pulp che di più non si potrebbe, e la letteratura dell'orrore estremo (come pure altre forme espressive parallele: cinema, fumetto, musica) è fatta anche di ciarpame sensazionalistico: volgare effettismo da macelleria, auto-compiacimenti morbosi e adolescenziali ed abberazioni sessuali. Se è vero, come sostiene Ramsey Campbell, che "l'orrore è ciò che non siamo riusciti ad accettare", è altrettanto vero che i mostri dello splatter tutto sono tranne che i frutti malvagi del sonno della ragione. Qui si parla di bombaroli nel Paradiso dell'ipocrisia e del perbenismo morale e letterario, di sabotatori dell'inconscio.

Marco Denti presenta così Jerome Charin:

E' un bel caos quello di Jerome Charyn, non esita un secondo a mettere insieme James Joyce e Madonna, Pinocchio e Moby Dick, O.J. Simpson e Mussolini, Roma e il Bronx. Eppure nel picaresco disordine a cui vanno incontro i suoi personaggi, c'è un metodo e un senso nella sua follia narrativa. Perché per quanto surreale e vagamente onirico riesce a rendere (come altrimenti non si potrebbe) l'atmosfera allucinata e confusa che è propria dei nostri giorni.

Segue una lunga intervista che chiarisce il punto di vista di Charyn sulla letteratura:

La scrittura deve essere assolutamente personale. Più uno scrittore lo è, e più può sperare di conquistare i suoi lettori: L'arte impersonale è un'idea a posteriori, non esiste proprio. Se devo parlare di romanzo, romanzo americano, devo dire che Lolita di Nabokov e L'urlo e il furore di Faulkner, che io ritengo capolavori assoluti, sono stati scritti senza alcuna prospettiva di essere pubblicati. Potevano essere benissimo lavori di dilettanti senza alcun legame con l'editoria. Del resto basta ricordare quello che è poi successo a Lolita per farsene un'idea. Il libro di Nabokov è stato censurato, bandito, messo da parte, più di una volta ha corso il rischio di non essere nemmeno pubblicato. Insomma erano libri scritti per un motivo che andava oltre uno scopo commerciale, che partivano da molto più lontano. Lo stesso potremmo dire probabilmente per tutta l'opera di Kafka: Per intenderci: più il libro sprofonda nel privato, più diventa universale.

 Claudio Galluzzi ci parla invece di James Ellroy in La forma e lo stile della corruzione:

L'uscita di American Tabloid ha indicato in Ellroy uno degli scrittori più omportanti d'America. Questo perché il romanzoè uno scarto abbastanza forte ed evidente della produzione precedente, aanche se bisogna riconoscere non in misura sconvolgente, visto che già segni di costruzione analoga (per forma e stile, ma più per la prima che per la seconda) si poteva intravedere negli ultimi lavori.
Certo è che questo romanzo segna una tappa importante per la letteratura contemporanea americana: e non solo, segna anche l'avvio (se sono vere le voci che circolano secondo cui Ellroy starebbe già lavorando al seguito) di una storia futura complicata e parecchio ambiziosa, visto che dopo tutto si tratta della Storia, con la maiuscola, degli Stati Uniti. Forse il progetto giusto per uno abituato a ragionare in termini di trilogia e quadrilogia. Per uno che ha nella cultura della saga la propria cornice di riferimento, una cornice dentro cui spennellare le proprie tele.

Segue una lunga intervista in cui Ellroy si mette completamente a nudo, raccontando tra l'altro come è nato il progetto di My Dark Places (1996) che ricostruisce le indagini  intorno all'omicio di sua madre avvenuto nel 1958 ed ancora irrisolto.

Ermanno Pea racconta Luo Reed in L'uomo con la maschera blu:

"Ho sempre pensato a me stesso come a uno scrittore. Se faccio il musicista è perché amo il rock, mi piace suonare la chitarra, adoro scrivere e non è niente male combinare le tre cose che più mi piacciono".

E tante e tante altre cose interesanti, che sarebbe qui troppo lungo elencare, su questa bellissima rivista, che per caso ho ritrovato,  di cui oggi possiamo solo lamentarne la scomparsa.

martedì 13 novembre 2012

Milena Milani - EMILIA SULLA DIGA - Mondadori 1954 - Lire ottocento


Milena Milani, nata a Savona nel 1917. Scrittrice, pittrice, giornalista, poetessa. Una ragazza di novantacinque anni il prossimo 24 dicembre, una vagabonda che ha attraversato la seconda parte del '900 da protagonista nell'arte e nella letteratura.

Esordisce nel 1944 con un volume di poesie Ignoti furono i cieli, segue nel 1946 una raccolta di racconti  L'estate, è del 1947 il romanzo Storia di Anna Drei con il quale vince il Premio Mondadori 1948, segue il racconto lungo Gli orsi di Mera nel 1951, Uomo e donna del 1952, ancora un volume di poesie nel 1953 La ragazza di fronte, poi ancora dei racconti nel 1954 questi di Emilia sulla diga

Nel 1964 è la volta di La ragazza di nome Giulio, il suo libro più famoso, che suscitò scandalo nell'Italia perbenista e ipocrita di quegli anni, con conseguente blocco delle vendite, sequestro dei volumi distribuiti e una condanna nel 1966 a 6 mesi di reclusione e 100.000 di multa. L'assoluzione in appello non fu sufficiente a togliere alla Milani la reputazione di scrittrice pornografica.

Per chi fosse interessato ad approfondire la conoscenza di  questa sorprendente donna, c'è una bella intervista su questo sito:
            http://www.segniesensi.it/index.php?option=com_content&task=view&id=162&Itemid=31

Il racconto che da il titolo al libro, sono due paginette che mi piace trascrivere per fare, spero, cosa gradita ai lettori del blog, e per dare un'idea di questo  suo particolare linguaggio.
Emilia sulla diga
Nel periodo del gran caldo io ragionavo pochissimo. Emilia telefonava al mattino; erano appena le sette e incominciava a dire: "Sei pronta? Fai in dieci minuti, ti aspetto alla fermata in piazza."
Io ancora non ero pronta, ma bastava la sicurezza della voce di Emilia a scuotermi, così mi alzavo in fretta e ancora più rapidamente mi preparavo.  Prendevo la borsa di paglia dove entravano un mucchio di oggetti, tra cui il costume da bagno, lo specchio e un bellissimo pettine di tartaruga chiara, con i denti radi.
La frutta la comperavo nel negozio sotto casa, era frutta meravigliosa, appena arrivata dal mercato, e il padrone per sbalordirmi cercava per me la migliore, pesche enormi e tenere con la polpa gialla, susine anch'esse gialle e grosse che si disfacevano in bocca, certe albicocche che avevano un sapore di ananasso.
Arrivavo all'autobus che questo stava per partire, ma Emilia aveva convinto il conducente ad attendere ancora qualche minuto. Subito essa protestava che se l'avessimo perduto, avremmo dovuto attendere il successivo per oltre mezz'ora, ma io non replicavo; ascoltavo, senza dire una parola, tutte le parole di Emilia.
Essa pensava, ragionava, decideva anche per me.
Io avevo abbandonato me stessa nelle sue mani; Emilia diceva che per reagire al caldo si doveva andare al mare dalle prime ore del mattino, e se fosse dipeso esclusivamente da lei, e non ci fossero state difficoltà d'altro genere, come a esempio l'impossibilità di trovare alloggio proprio vicino alla spiaggia, il costo elevato di quelle abitazioni, essa mi avrebbe costretta a cercare casa da quelle parti.
Avevamo ottenuto quindici giorni di vacanza dal direttore dell'ufficio dove insieme lavoravamo, e quei quindici giorni li stavamo spendendo l'uno dietro l'altro, quasi fossero stati gli ultimi della nostra vita. Ognuno di essi, aveva, per questa nascosta ragione, una sua particolare bellezza, anche se in realtà assomigliava al precedente.
Io me ne accorgevo, ma il mio cervello, la mia mente erano spesso privi di consistenza, mi sembrava che il calore del sole si fosse avvicinato alla terra e si divertisse a bruciare i pensieri degli uomini.
Effettivamente questi uomini mi assomigliavano. e intendo dire che essi erano, come io ero, svagati, e anche svuotati; giacevano sulla sabbia in pose di abbandono, o nuotavano stancamente nel mare; le donne, i bambini avevano anch'essi perduto una parte della consueta vitalità, e tutto il giorno stavano all'ombra, con la testa coperta da un fazzoletto.
Emilia, no, al mare essa era diversa dagli altri; il suo sistema nervoso la rendeva simile a una scintilla, venuta fuori da un gran fuoco, e come una scintilla risplendeva, si agitava, piccola e scura di sole, con il suo costume rosso, e i capelli chiarissimi lunghi sul collo.
La ricordo qualche giorno fa, mentre correva sulla diga.
La gente riversa in riva al mare, non si muoveva per estrema stanchezza, il sole rendeva la sabbia come l'oro, il mare anch'esso oro fuso; spiccavano senz'ombra le capanne nel fondo, con le tende a righe.
Emilia si alzò di scatto, e mentre io dicevo: "Che cosa fai? Dove vai?" essa era già lontana.
Si era tolta i sandali per correre più svelta, li teneva con una mano, la diga bianca battuta dal sole doveva essere infuocata, ma Emilia non sentiva quel calore.
Pigramente io socchiudevo gli occhi e il mio cervello affascinato seguiva quei movimenti leggeri, quel piccolo punto rosso che era Emilia, le gambe di Emilia che correvano.
Poi dietro le mie ciglia, incominciarono a danzare punti colorati, erano gialli, rossi, arancione, blu; il sole mi invadeva gli occhi, penetrava sotto le palpebre.
Allora, veramente, non ho più ragionato, è caduto il sonno su di me; non ero che un corpo in riva al mare.

sabato 10 novembre 2012

Juan Rulfo - PEDRO PÁRAMO - Einaudi 2011 - Traduzione Paolo Collo - € 12,50



Ci sono autori la cui importanza è inversamente proporzionata al numero delle opere pubblicate. Prendiamo ad esempio Sherwood Anderson. Con il suo Winesburg, Ohio, (Racconti dell'Ohio, in italiano) ha influenzato una generazione di scrittori da Emingway a Faulkner, da Steinbeck a Wolfe, ad altri ancora.

Analogamente, Juan Rulfo (1917-1986) considerato il maggiore scrittore messicano del novecento, ha pubblicato  in vita solo due romanzi,  La pianura in fiamme (1953) e questo Pedro Pàramo (1955), ma ha orientato con la sua scrittura una schiera di narratori che, con l'ostinata abitudine occidentale di etichettare tutto, abbiamo definito del realismo magico.

In terza di copertina, Gabriel Garcia Marquez così racconta il suo incontro con questo incredibile romanzo:
Álvaro Mutis salì a grandi falcate i sette piani di casa mia con un pacco di libri, separò dal mucchio il più piccolo e mi disse ridendo forte: "Leggi questa sciocchezza, cazzo, e impara!" Era Pedro Pàramo. Quella notte non riuscii a dormire prima di aver finito di leggerlo per la seconda volta.


La singolarità di questo romanzo che lo rende così particolare, è dato dalla  sistematica violazione della cronologia temporale, come se passato e presente fossero amalgamati inestricabilmente.

Così inizia il romanzo:


Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Pàramo, abitava qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo quando lei fosse morta. Le avevo stretto le mani per farle capire che l'avrei fatto; lei aveva deciso di morire e io di prometterle qualsiasi cosa. "Non mancare di fargli visita, - mi raccomandò. - Si chiama così e cosà. Sono sicura che gli farà piacere conoscerti". Per cui non potei far altra cosa che dirle che l'avrei fatto, glielo assicurai e continuai a dirglielo anche dopo che alle mie mani costò fatica liberarsi dalle sue mani morte.
Il viaggio onirico di Juan Precìado alla ricerca del padre, ricostruisce il paese Comala - una Macondo ante litteram - con i suoi abitanti che vivono o muoiono in un tempo circolare, dove presente e passato sembrano coincidere.

Infatti, la chiave di lettura si trovi qualche riga più avanti, quando aggiunge:

Ma non pensai a mantenere la promessa. Fino a ora, quando cominciai a sognare, a far volare le illusioni. E in questo modo prese forma un mondo intorno all'aspettativa rappresentata da quel signore chiamato Pedro Pàramo, il marito di mia madre. Per questo venni a Comala.

Devo un ringraziamento veramente speciale  all'amica Elisabeth San Juan-San Juan che mi ha fatto conoscere questo autore, suo connazionale, facendomi  dono di quest'opera geniale, edita dalla Fondaciòn Juan Rulfo,  che per una maggiore comprensione ho integrato con l'ultima traduzione italiana (ne esistono ben tre di traduzioni italiane!), questa per  Einaudi di Paolo Collo.



Interessanti le 40 copertine delle traduzioni dell'opera di Rulfo in tutto il mondo:



mercoledì 7 novembre 2012

Mario Schettini - I RAGAZZI DI MILANO - La Medusa degli italiani n. 103 - A.M.E. 1956 - £ 1.000


La Medusa è la storica collana che fece conoscere agli italiani tanti autori stranieri, che il regime fascista voleva mantenere fuori dai nostri confini culturali: Arnoldo Mondadori, da quel grande editore che era, riuscì a realizzare questo grande  progetto facendone un successo anche economico.

Dopo la guerra, nel 1947, Mondadori estese il progetto agli scrittori italiani creando La Medusa degli italiani che continuò le pubblicazioni fino al 1961.

Questi ragazzi di Milano sono i rampolli della borghesia industriale, nati intorno agli anni venti del novecento e cresciuti nella società creata dal fascismo, anzi abituati ad identificare il fascismo con lo Stato.  Ma i romanzo non parla di fascismo, la prima parte del libro si occupa essenzialmente dei sentimenti di questi ragazzi, dei difficili rapporti tra coetanei e con il mondo adulto, una panoramica di quel periodo difficile della vita che solo un inveterato ottimismo può definire felice, cioé l'adolescenza. 

Questo l'incipit:

Il lago di fronte al collegio era astratto. Nessuno ci faceva caso. Pareva vuoto, senza una percettibile profondità come un colore del cielo. Sotto il sole splendeva assente e distaccato, tanto che i ragazzi del collegio guardavano sempre un po' meravigliati le onde che si rinfrangevano contro la riva, come se l'acqua ribollisse all'improvviso. I fiori sulla riva di cemento erano sgargianti, vellutati, diritti entro le aiuole. Era un paesaggio ricco e composto, ma sfuggiva a ogni emozione. Paolo aveva l'impressione di non toccare niente con mano: gli alberghi massicci, le ville, i prati pettinati,  gli alberi, avevano la stessa cristallina freddezza dei monti azzurri che spuntavano dietro la riva opposta del lago.
Eva e Paolo, uniti da una loro intima solitudine e da un identico sentimento di evasione, non riescono a infondere alla loro breve storia quel calore in grado di trasformarla in amore salvifico.

Eva amava la sua spiccata femminilità. Ne era orgogliosa. Ma nessuno doveva fargliela notare. I compagni con i quali si dimostrava così impaziente d'amore, non ne accennavano mai, l'avrebbero offesa duramente. Era ormai un'amante perfetta. Ma guai a dirlo!
E poi l'Italia entra in guerra:

Cominciarono le vacanze. All'ansia, alle preoccupazioni dei primi giorni di guerra, nella comitiva dei ragazzi era subemtrata una dolce inerzia, una tranquilla attesa. E anche partire, viaggiare, farsi i bagni come ogni estate, pareva inutile. Non c'era più niente che potesse interessare, allettare oltre la guerra: avevano voglia di divertirsi, ma come per ingannare il tempo. Non che la guerra piacesse. Ma la guerra imponeva una severità che non avevano sentito prima in ness'altra norma. Il tempo passava solo per la guerra. Non restava che un'attesa indifferente, irresponsabile. Tutta la vita dipendeva da circostanze estranee alla propria volontà.
Nella seconda parte il protagonista, dopo l'esperienza della guerra, ritorna in una Milano profondamente mutata, rivede i vecchi compagni, ripensa la vicenda di Eva, il collegio, l'infanzia e qui il racconto si interiorizza fino a farsi memoria.