venerdì 23 dicembre 2011

Riccardo Bacchelli - IL DIAVOLO AL PONTELUNGO -Mondadori 1957 - £ 1.600


Questo squinternato volume della collana mondadoriana dei Narratori Italiani n.42 uscì nel 1957, per dare un'idea della lontananza di quella data, basti pensare che in quell'anno iniziarono le trasmissioni di Carosello, sei paesi firmarono il Trattato di Roma per far nascere l'Unione Europea, uscì la prima Fiat 500, Jack Kerouac pubblicò On the road e in Italia Feltrinelli diede alle stampe Il dottor Zivago.

Il diavolo al Pontelungo, naturalmente, non era una novità editoriale, era già stato pubblicato nel 1927, anno particolarmente ricco per la letteratura: nello stesso anno uscirono infatti America di Kafka, Gita al faro della Woolf e il Tempo ritrovato con cui Proust chiudeva la sua recerche.

Il romanzo uscì dunque nel '27 per i tipi dell'editore Ceschina di Milano, ma Bacchelli continuò a metterci le mani, sicché la versione definitiva la si può considerare questa del 1957 a cui seguirà, nel 1965, una edizione economica negli Oscar.


Questo romanzo storico di Bacchelli, definito da molti critici una delle opere più felici e più fortunate del romanziere, tratta dell'amicizia prima e della rottura poi tra l'anarchico rivoluzionario Michail Bakunin (1814-1876) e l'anarchico Carlo Cafiero (1846-1892), nonché del primo tentativo di far scoccare la scintilla della rivoluzione a Bologna per poi estenderla in tutta Italia.

Bakunin è una figura affascinante nel panorama ottocentesco, partecipa nel 1949 all'insurrezione di Dresda - gli fu compagno tra gli altri Wagner - arrestato e condannato a morte, pena commutata in carcere a vita, dopo il trasferimento in Russia la sua pena fu ancora commutata in esilio in Siberia, da dove fuggì nel 1861.

Ecco come magistralmente ce lo descrive Bacchelli:

Michele Alessandrovic Bakùnin sfiorava due metri di statura, e la sagoma dell'uomo era ampia e possente in pari proporzioni. La barba gli scorreva sul petto larga e appuntita, morbida, ondulata e brizzolata come i capelli che gli facevano una raggiera folta dietro la nuca. La fronte era larga e un po' sfuggente, fronte di fantastico e di sensuale; il naso era vivo e la bocca carnale. Lo sguardo era azzurro come l'illusione e trasparente come la logica assurda; le palpebre gravavano un poco, come quelle dei pigri e degli assonnati, sull'occhio. Questo era acuto, interrogativo, pronto sugli oggetti e sull'interlocutore, oppure vago e perso in un lieve sorriso estatico, indirizzato a tutto o a niente. Queste due espressioni di estrema petulanza e di estrema indolenza si inseguivano sul viso di Bakùnin a distanza di momenti, a volte accompagnando e a volte contraddicendo le parole e le azioni di quel che stava facendo e dicendo.
Carlo Cafiero, l'anarchico pugliese, ecco come ce lo presenta Bacchelli:

Carlo Cafiero, di fronte allo slavo rumoroso e massiccio, era tutt'altra figura fisica e morale. Egi era spinto ad agire dalla testa, e la testa esaltata non lascia requie, nè svago, nè sanità. Era di media statura, abbottonato e scialbo nel modo di vestire quanto Bakunin era libero, sciolto e colorito nel suo. Capelli e barba aveva lisci, uniti e ravviati; era un uomo gracile e composto, un'astratta e nervosa figura d'italiano e di meridionale. L'inquietudine che suscitava lo scioperato Bakunin era un elemento di simpatia umana, la stima che destava Cafiero era causa di freddezza. Asciutto, taciturno, severo, aveva nelle dita qualcosa che non voleva mai star fermo. E fregava spesso i gomiti sul fianco, stropicciando fra le dita, come per strapparli, maniche e bavero della giacca. Questi gesti divenivano nella contrarietà veri accessi nervosi, e allora lo sguardo, miope dietro gli spessi occhiali a stanghetta da studioso, cresceva una sua fissità assente e penosa. Il naso era bonario, la bocca arida, la fronte appuntita di testardo e di mistico. Al solo vederlo si scorgeva l'uomo scrupoloso e sottile, e su tutta la persona un segno, un'ombra di destino funesto e smarrito.
L'insurrezione di Bologna, che avrebbe dovuto essere la scintilla capace di scatenare la rivoluzione in Italia, fallì miseramente perché all'appuntamento con la storia si presentarono solo duecento rivoluzionari anziché i mille previsti, male organizzati, peggio armati, senza nessun coordinamento tra i vari gruppi, regolarmente ostili tra loro: caratteristiche queste peculiari sia della sinistra di tutti i tempi, che degli italiani in genere.

Le ali ardenti e temerarie dell'utopia erano cadute come ali da teatro, e Bakùnin si destò sereno e curioso del mondo. Era una curiosità pacifica, di ogni e qualsiasi oggetto. Per quanto gli paresse di aver da apprendere tutto, cioè quel che in sessant'anni aveva ignorato o visto di straforo coll'occhio dell'arbitrio e dell'idea fissa; tutto il vasto mondo, le tantissime cose, ora che di vita gli restavano mesi più che anni, non gli facevan fretta, non erano una ricchezza da dilapidare per timor d'essere tardi a godere. Il mondo era una ricchezza sua e senza fondo, tranquilla, inconsumabile.
A distanza di tempo dalla sua apparizione, il romanzo non ha perso nulla della sua attrattiva e del suo fascino, e si legge con piacere, pervaso com'è da bonaria saggezza e garbata ironia.

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